La vita ha forme bellissime e talvolta scompaginanti e la mente degli esseri umani nasconde misteri molto incomprensibili anche a noi stessi. La vicenda accaduta ad un giovane pochi giorni fa nel nostro territorio deve farci riflettere su temi complessi e spigolosi: la morte avvenuta, attesa, voluta, temuta.
Nell’arco di un anno abbiamo ascoltato notizie di giovani suicidari che hanno fortemente destabilizzato la nostra psiche suscitando spesso reazioni contrastanti. Da una parte è spontanea la tendenza al cordoglio e alla ricerca del perché di un gesto così irreparabile. Dall’altra coesiste la tendenza a eludere gli interrogativi sollevati dal fenomeno, a voltare frettolosamente pagina, come se il suicidio dovesse restare qualcosa di inspiegabile.
Ciò avviene – secondo la tesi del sociologo francese Patrick Baudry – “Per un rifiuto di sapere che si esprime nella ricusazione sistematica di spiegazioni periferiche che non arriverebbero mai all’essenziale”, allo scopo di “caricare di mistero il suicidio per proteggersi dal suo scandalo”.
In tale condizione, l’essere umano ha una rappresentazione di sé, dell’altro e del mondo estremamente negativa tale da non garantire una gestione e regolazione emotiva positiva fino ad implodere in un acting autolesionista e distruttivo. Nel suicidio vengono a mancare alcune risorse necessarie, in particolare le strategie di coping che sono considerate caratteristiche relativamente stabili della personalità, che determinano le differenze individuali nel modo di reagire ad eventi di vita traumatici.
Più che correlato al desiderio di morte, il suicidio è meglio comprensibile come cessazione del dolore. La mente agisce come “cattivo consigliere” ordinando la morte come unica soluzione al dolore insopportabile (Schneidman 2005).
Lo stato emotivo del soggetto suicida è non integrato e prevale uno stato di impotenza appresa che fa sentire spaventati e succubi degli eventi e quindi incapaci di apprendere abilità, di aver voce nelle relazioni e di poter controllare e modulare le emozioni.
Nella mente l’unico pensiero valido è di natura ambivalente tra la vita e la morte.
I comportamenti suicidari e auto lesivi possono costituire modi disfunzionali per interrompere penosi e intensi stati affettivi o la diretta conseguenza delle tendenze all’azione presenti nelle emozioni non modulate.
Il punto debole è la funzione autoriflessiva assente, e si agisce, nel tentativo di controllare gli stati mentali, sul corpo o sul’ambiente, da qui i tentativi di suicidio.
Lo stato di vuoto in un substrato di Sé indegno e vulnerabile viene percepito come una sorta di tranquillo Nirvana o come uno stato di controllo e di invulnerabilità onnipotente. E’ questa la condizione in cui si verifica più di frequente il suicidio come effetto di un distacco dal mondo o per evocare tale distacco.
La gestione disregolata del vuoto finisce quasi invariabilmente con l’alimentare il senso di indegnità/vulnerabilità innescando un circolo vizioso che genera i comportamenti più a rischio per l’incolumità del paziente. Nell’ambito cognitivo, questo stato è spesso descritto come strategia di evitamento o di coping disfunzionale rispetto a situazioni fonte di sofferenza soggettiva; ad esso è attribuito il maggior rischio di atti auto ed etero lesivi.
Tale argomento necessita riflessioni, domande volte a comprendere cosa accade nella nostra personalità tanto da portarci a fare una scelta così drastica, pertanto sarà ancora oggetto del prossimo articolo la settimana prossima : il valore culturale, sociale e psicologico della morte.