E se provassimo a confrontarci in modo positivo con la morte: anello di congiunzione con la vita?
Perché non provare ad indossare lenti culturali, sociali e religiosi differenti, nuove, capaci di affrontare questo momento sì difficile ma anche come possibilità di viverci pienamente, consapevolmente e in modo entusiastico la vita?
E’ destino per ogni uomo doversi scontrare e confrontarsi nel corso della vita, prima o poi con il dolore, la sofferenza, la morte e la sua “angoscia”.
La morte nel corso del tempo ha sempre rievocato scenari di paura, provocando uno sconvolgimento dell’esistenza per i popoli primitivi che cercavano di contenerla con riti e miti.
Nella società contemporanea, l’idea negativa della morte predomina e sembra esserci una grande difficoltà a gestire le emozioni di rabbia e di paura rispetto al fine dell’esistere.
Ad un attento ascolto della risonanza emozionale della parola “morte”, sul piano storico e culturale, pesa in modo negativo sia nella dimensione mentale che corporea come fine, annullamento del sé, un tabù attorno al quale deve regnare un “dolore silenzioso” che esprime tutto il disagio ad accettare una sconfitta per l’uomo vivente, che viene negata, esorcizzata e che fa paura.
L’Io ha bisogno di proteggersi dall’idea di un “lasciar andare”, di “separarsi”, di un annullamento del sé e tuttavia si percepisce questa esperienza come il più importante degli eventi in quanto in essa è racchiuso il senso dell’esistenza intera (O. Mariani, 97).
Oggi, dove prevale una concezione dell’uomo basata sull’efficienza, su prestazioni di alto livello, le richieste sono quelle di produttività, di “fare” e non fermarsi, pertanto eventuali arresti come malattie, problemi psicologici, familiari, economiche e sociali implicano perdite inaccettabili. E prevale una visione illusoria di controllo della vita biologica eletta a valore assoluto nei confronti di un disvalore che è la morte che si cerca con la medicina e con quella estetica in particolare, di tenere il più lontano possibile, la si respinge perchè rappresenta un ostacolo da risolvere affinchè la vita possa riprendere il suo corso.
Thanatos è un’esperienza scompaginante per ognuno di noi, ma perché non vedere il rovescio della medaglia, la possibilità educativa che ha quest’esperienza di far “rinascere” e “ricominciare”?
Una presa di coscienza da parte dell’essere umano che la propria vita è mortale e il riconoscimento che la propria finitudine consente una corretta visione del mondo e potenzia le possibilità dell’agire aiuta a progettarci per una “morte vitale” che ci consente di vincere su quella cultura del silenzio, dell’omissione. Tale esperienza è un’occasione per trarre insegnamenti preziosi al fine di dare leggerezza e un’attribuzione di senso ad ogni attimo della nostra vita.
Lo scopo di tale presente riflessione è riuscire a vedere oltre la paura della morte e ridimensionare quel bisogno di vivere in una perenne condizione di fuga – fuga dal limite, fuga dal dolore e dallo spettro della malattia – che si traduce, sempre più spesso, nell’impossibilità di vivere, nell’incapacità di godere pienamente dell’istante o di un’esperienza, perché già irrimediabilmente corrotti dalla preoccupazione di ciò che verrà dopo. E per paura del volto ignoto che si cela in quel ‘dopo’, procediamo come animali braccati nel nostro percorso di continui superamenti, senza che alcuna meta sia da considerarsi ambita. (Carotenuto, 1999).
Se pensiamo a noi come parte ma anche come essere della natura umana, la morte ci viene imposta dalla natura stessa, che con le sue leggi e forze inevitabili di fronte a cui l’uomo nulla può!
Se l’individuo muore è solo perché è nato: e questo è meno banale di quanto possa sembrare, in quanto una realtà connaturale con il nostro stesso essere, la morte appunto, dovrebbe indurre, diversamente da quanto accade in gran parte, ad un’accettazione cosciente e serena, anche se non priva di sofferenza, della stessa.
La serenità, forse, può nascere solo interpretando la vita come un percorso, il cui valore non è dato dal tempo, dalla durata, dalla quantità, ma dalla qualità dell’attimo presente, dalla ricchezza di un presente che sappia sempre abbracciare “il passato con il ricordo, e il futuro con l’attesa”; di un presente quindi che tenta di scoprire il segreto della morte cercandolo nel cuore della vita, poiché, come sostiene il poeta Gibran, la vita e la morte sono una sola cosa, come lo sono il fiume e il mare.
Forse la serenità si intravede dietro l’accettazione di queste immagini, che, per quanto avvertite dalla ragione umana come paradossi, possono stimolare l’uomo a non fuggire la morte, ma a viverla, nella certezza, indubbiamente non razionale, che con essa la ‘partita’ non è affatto conclusa: “Solo se berrete al fiume del silenzio, potrete davvero cantare. E quando avrete raggiunto la vetta del monte, allora incomincerete a salire. E quando la terra esigerà il vostro corpo, allora danzerete realmente”.
Occorre che gli individui si approprino coscientemente di questa realtà, la morte appunto, che non è un oggetto estraneo che prima o poi, indipendentemente dalla volontà personale, possederanno; essa appartiene alla categoria dell’‘essere’ e non dell’‘avere’, ed è quindi l’esistenza stessa e non un evento accidentale, privo di significato e influenza sulla vita.
Sembrerebbe dunque che quello da cui l’uomo moderno rifugge non è il limite della sua vita, ma il riconoscimento e il confronto della sua stessa caducità.
La morte come momento di massima entropia racchiude in sé il germe di una nuova esistenza al di là dello spazio e del tempo. Una vita che crede di poter mancare al grande appuntamento del confronto è una vita che difficilmente potremmo definire autentica (Carotenuto 2004).