Bigliettai passati dalla parte dell’illegalità, treni sporchi e perennemente in ritardo, viaggiatori spesso non muniti di titolo di viaggio, personale stizzito e pendolari rumorosi. Un ritratto dell’orrore quello dipinto “Panorama” per la Circumvesuviana, definita dal settimanale d’inchiesta come “la ferrovia peggiore d’Italia”. Un reportage lungo quattro pagine, e che è in edicola da oggi, in cui vengono portati alla ribalta nazionale tutti i problemi cronici dell’azienda di trasporti su ferro particolarmente tramortita dai bilanci in rosso. Tuttavia è la qualità del servizio, dalla puntualità dei convogli alla loro pulizia, a tracciare il quadro drammatico delle quattro linee della Circumvesuviana.
«Non c’è stazione di questa sciagurata Circumvesuviana, la ferrovia regionale campana che collega Napoli a Pompei, a Sorrento, a Sarno, ad Acerra – scrive “Panorama” – in cui non si sia combattuta una guerra contro il treno, il mezzo di trasporto che ha fatto l’unità e che oggi gli stessi pendolari attaccano come se fossero mujaheddin. A Pollena hanno distrutto i bagni di servizio; a Sarno hanno forzato le sbarre di entrata; a Gianturco hanno vandalizzato i vagoni; a San Giovanni hanno sventrato le carrozze; a Somma Vesuviana hanno divelto i tornelli. In questi luoghi il vero comportamento eversivo è timbrare: il 40 per cento dei passeggeri, calcola la società di gestione, non paga il biglietto».
E ancora sulle prestazioni: «Su 142 treni della Circumvesuviana oggi 89 sono fermi, solo 53 sferragliano sulle traversine di una rotaia ormai logora, che non permette di superare la media di 20 chilometri orari. I treni vandalizzati sono stati abbandonati sulle tratte, ridotti a carcasse, incolonnati a bordo dei binari, nemmeno fossero bare del nostro trasporto su ferro». Infine la sentenza: «La Circumvesuviana è un piccolo cratere di sozzura che gira sulla Napoli-Sarno, la Napoli-Ottaviano. È la resa dello Stato. Non è soltanto una ferrovia che non funziona, la Circumvesuviana è il simbolo più evidente di un Paese diviso e che ci confina nelle piccole patrie, il nostro mancato lieto fine».