Brandon è malato di “sesso compulsivo”, non può farne a meno: a lavoro, con riviste, DVD, chat erotiche. Illuso da un amore passeggero e dal caos segnato dall’ingresso nella sua vita della sorella (interpretata da una brava, ma non eccelsa, Carey Mulligan), Brandon proverà a “disintossicarsi”, ma sarà (forse) tutto inutile.
La strada intrapresa dal regista Steve McQueen, sembra entrare in una sorta di “tendenza” che sta caratterizzando il cinema (non solo americano) degli ultimi 10 anni. Shame è il suo secondo lavoro registico, successivo al mal distribuito Hunger (2008), narrazione sul dissidente dell’Ira Bobby Sands, che riuscì, col suo digiuno, a mettersi contro la Thatcher. Sembra scontato, ma entrambi i film sono strettamente collegati: l’ uno è figli(astro) dell’altro. Osannato dalla critica (Venezia ha consegnato a Michael Fassbender la Coppa Volpi come Miglior interpretazione maschile), Shame portava su sé il peso della sua fama. Il peso di quello “scandalo”, della “vergogna” del titolo, che doveva materializzarsi davanti i nostri occhi. Il pubblico, su questo, è stato accontentato, con l’attenta messa a fuoco del membro del protagonista nel piano sequenza iniziale. Poi, il buio (della perversione e del corpo). Shame, al di là del suo alone di “diversità”, è una pellicola classicissima. Ma, nonostante la scelta di alcuni non eccelsi interventi di sceneggiatura (non tanto solida quanto si ci aspetti) e di sviluppo, il regista dirige giocando sui fuochi, anzi sui “fuori fuoco”, dando all’attore campo libero: l’interpretazione di Fassbender, in questo senso è una spanna sopra tutti (anonimi i co-protagonisti, ma la “vergogna” non riserva altri protagonismi). Impassibile nelle pratiche del piacere quotidiane, ripetute nei luoghi e nei momenti più impensabili, supportato dalla regia “appannata” di McQueen, che con più di un piano sequenza (magistrale quello della cena), “cede” la narrazione al corpo dell’attore, focale di quella continua ricerca di nitidezza degli eventi. Shame è luogo di interessanti riflessioni. Punto primo: il porno è l’AIDS del ‘900. L’80% del traffico effettuato su internet porta a siti hard e Shame si offre come delirante campanello d’allarme.
Ma Shame, soprattutto, sembra un incredibile esperimento. Non sociale (e ci prova, quando ci guida nel locale per omosessuali), ma (meta)interpretativo. Il cinema, non solo americano (penso a una pellicola italiana come Primo amore) ha iniziato una interessante ricerca sul “corpo”, quello “vero”, diverso e discordante dal corpo digitale e/o cibernetico del cinema degli ultimi anni. Tutto era iniziato con Star Wars di Lucas (e sicuramente anche prima e non solo al cinema), si era passati per Hobbit, King Kong, motion capture. Poi Avatar: la vetta del corpo cinematografico computerizzato. Indietro non si torna. Il cinema quindi, decide di concentrarsi su come sia “vero” quel corpo che non esiste più (o esiste solo in parte), impiantando riflessioni sul “corpo” non solo attoriale (Fassbender si “trasforma”, lentamente in uno scheletro) fino a farlo scomparire (l’orgia finale nello specchio) ma sul “corpo” cinematografico e sulla “macchina” cinema. Fassbender che piange, disperato, nella sequenza finale del film cerca di concentrare l’attenzione su questo. Il suo corpo, medializzato passivamente, martorizzato dalla perversione, che ha perso tutte “le forze” (anche quello della sorella, che si è tagliata le vene, come a cercare qualcosa di ancora “vivo”, qualcosa che ancora l’agganci all’ “umano” e che canta New York, New York in uno strepitoso [quasi]piano sequenza a rimpiangere i tempi [cinematografici] andati) è esplosione di rabbia di quello che abbiamo perduto (o che potremmo perdere), un (simil)urlo munchiano che guarda lo schermo/spettatore nel grigio della New York spersonalizzante, dei locali tra i grattacieli, nei loft tra le nuvole, tutto reso egregiamente dalla fotografia di Sean Bobbitt, che coglie nascosti anfratti della città, che, in effetti, non sono altro che nascosti angoli dell’animo del protagonista. La “vergogna” di McQueen è in fondo quella paura nascosta di guardare in faccia i demoni del nuovo secolo. Tanto di salvarsi, non è che importi a qualcuno, se siamo tutti infetti. E forse lo sguardo finale di Fassbinder è proprio questo: a spiare verso ciò che non si sa, verso un “nuovo” corpo, (forse un nuovo “cinema”), ma sempre “animali”.