Una donna in carriera scopre di essere incinta del suo superiore, che lavora all’interno di una azienda farmaceutica. Subito dopo la notizia, viene licenziata e decide di avere la sua vendetta, aiutata da un giovane e (all’apparenza) innocuo avvocato. Il finale non è, però, così scontato.
Già a partire dal suo primo lungometraggio (uscito nel 2013), intitolato Amiche da morire, si intuiva che il cinema di Giorgia Farina, fosse un cinema virato al “rosa”. Ma con molte venature noir, surreali e (inteso nel senso “terreno” del termine) quasi supereroistiche. Ma ci spiegheremo a breve. Lo stesso, sembra, accade nella sua seconda e interessante regia, Ho ucciso Napoleone e di cui ha scritto (così come nel precedente) la sceneggiatura, stavolta coadiuvata da Federica Pontremoli, collaboratrice di Moretti in Habemus Papam e di Özpetek in Magnifica Presenza. La coppia (nonostante, lo ammettiamo da subito, numerose cadute di stile) riesce a costruire, grazie ad un montaggio e ritmo frenetici, una pellicola che diverte, convince (più della precedente) e che lascia, però, tanto amaro in bocca. La sceneggiatura viene cucita addosso ad una Micaela Ramazzotti in forma super, che riesce a costruire, tramite comportamenti, battute, vestiario (dieci e lode alla sua acconciatura dark) e piccoli tic nervosi, un personaggio che instaura subito con lo spettatore un rapporto di odio profondissimo. Il suo personaggio, infatti, è la perfetta donna/macchina in carriera senza sbavature, senza un briciolo di emotività, che regola e calcola ogni singola mossa. L’unico sentimento che non riesce a controllare, però (così come accadeva per le protagoniste del film precedente), è proprio l’Amore, che la spinge a lasciarsi andare tra le braccia dell’uomo che ama, nonostante, poi, la “odiata” gravidanza. A pensarci bene il personaggio della Ramazzotti (tornado alla considerazione aperta a inizio recensione), è simile alle tre protagoniste di Amiche da morire: lucide e perfette dall’inizio, dovranno fare i conti con uno spiacevole imprevisto (causato sempre dall’incoscienza dell’Uomo) e saranno costrette a “trasformarsi”, a “rinascere” (qui il senso del percorso della gravidanza è cruciale) cattive, a fare azioni di cui poi si pentiranno, per poi “chiudere il cerchio” tornando quelle di prima, forse innocue, forse sbadate, forse perfide, ma pur sempre Donne. Ecco allora che la Donna, nel cinema della Farina, acquista quel suo alone di “supereroe sociale”, tenta in tutti i modi di prendersi il suo posto nel mondo, sfoggiando tutte le armi in suo possesso, tra cui, non solo la scontata seduzione, ma anche sfrontata e acuta astuzia. Il tutto invischiato in un ritmo, come accennato prima, davvero frenetico (il montaggio è curato da Esmeralda Calabria), ma che rischia di trasformare il lavoro della Farina in un calderone confusionale. Si pensi a tutti i personaggi comprimari, che, anche se vengono lasciati in mani attoriali sicure (come Iaia Forte o Elena Sofia Ricci, sempre donne e sempre pronte a conquistare il proprio ruolo), sono presentati e sfruttati male, senza un briciolo di sviluppo psicologico e lasciate troppo presto al loro scontatissimo destino; senza considerare la “poco classificabile” situazione della famiglia della protagonista, lasciata, a volte, più alla confusione che alla ovvietà. Ovvietà che, anche se sembra essere, nella sceneggiatura, un punto sfavorevolissimo per l’insieme, diventa un’arma narrativo-spettatoriale interessante. Infatti è proprio questo meccanismo che spinge lo spettatore ad avanzare, fin dai primi quindici minuti di film, ipotesi “premeditate” sul finale, che poi si riveleranno completamente sbagliate. Su questo punto di vista il personaggio lasciato a un convincente e sempre bravo Libero De Rienzo, è perfetto: viene presentato come il faro che porterà luce nella vita della protagonista (attivando il meccanismo poco fa accennato) trasformandosi ben presto in un vero e proprio cattivo come pochi. I ruoli si ribaltano, lei diventa lui e viceversa, i toni si fanno più scuri, le inquadrature incerte: la trasformazione nel mostro è compiuta. L’effetto è reso ancora più forte non solo da una colonna sonora azzeccatissima, ma da una buona fotografia, curata da Maurizio Calvesi (collaboratore di Faenza, sempre Özpetek e Vancini) che mette in risalto la spigolosità dei corpi con la freddezza di alcuni luoghi (si pensi alla fabbrica o alla casa della protagonista, modo per enfatizzare il “freddo” emotivo dei personaggi) e la luce e il calore delle sequenze lasciate ai momenti dedicati alla famiglia, al futuro, alla dolcezza. Ho ucciso Napoleone è un interessante lavoro dark, che scivola nella commedia-noir, sfruttando in pieno attori e meccanismi spettatoriali. Benvenuti nel cinema “rosa” dei supereroi in gonnella di Giorgia Farina.
Potrete vedere Ho ucciso Napoleone in queste sale:
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Med Maxicinema The Space Cinema
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