Un viaggio dentro a due mondi, ma della stessa galassia, quella dell’America della Louisiana. Tra tossicodipendenti e nuovi rivoluzionari armati di ideali pseudopatriottici, tra striptease e festini orgiastici, tra l’amore per la famiglia e la propria Patria, tra vecchi bevitori e odio presidenziale.
Risulta difficile, alla fine della proiezione, delimitare un preciso percorso interpretativo del nuovo e affascinante lavoro del regista italiano Roberto Minervini, dal titolo Louisiana (The Other Side) e inserito nella sezione Un Certain Regard dell’ultimo Festival di Cannes. Un “film documentario” come recitano i titoli di coda e che lo rende ancora più interessante dal punto di vista analitico. L’approccio al genere documentaristico è sempre stato ricco di teorie, riflessioni, paradossi (tutta la questione del “guardare” che influenza ciò che viene “guardato”) e, allo stesso tempo, ricco di lavori straordinari, che hanno sempre cercato di dare un “riconoscimento” poetico a quello che secondo alcuni è ben lontano dal prodotto chiamato Cinema. Ma, come sempre, è questione di interpretazione. Al di là di tutte le problematiche legate al “genere” nel quale inserire il lavoro di Minervini, quello che colpisce, a primo impatto, è la sua totale assenza di genere. Il film, infatti, sfiora continuamente il limite del finzionale (ammettiamolo, forse a volte lo travalica), ma resta comunque ancorato a un discorso cinematografico ben preciso, iniziato dal regista con il suo peregrinare nelle “lande” americane e la sua triade di documentari The Passage, Low Tide e il penultimo lavoro, lo strepitoso Stop the Pounding Heart (anch’esso presentato a Cannes, nel 2013), tutti ambientati nel caldo Texas. Stavolta lo sguardo del regista si sposta un po’ più a Est e più precisamente in un luogo indefinito dello stato della Louisiana. Ma attenzione: nessun dato indica il “dove”. Questo può essere un segnale forte del regista. Come se la sua indagine antropologica (e di questo anche si tratta, se pensiamo che la pellicola, dopo una sorta di “prequel” che poi si collegherà a uno squarcio negli ultimi 20 minuti finali, mostra un uomo completamente nudo che all’alba, si incammina verso il proprio destino) fosse estendibile a tutto il globo terrestre. Perché se è vero che quello che stiamo guardando ha i filtri della narrazione pari a zero, la storia del ragazzo tossicodipendente/spacciatore, costretto a fare questo perché forse la vita non gli può dare null’altro, ha il suo carattere di estrema universalità in quasi ogni fotogramma. Il suo, come indicato all’inizio, è un percorso precisamente “evolutivo”: si parte con il suo cammino, nudo, nell’alba, fino all’incontro con la (presunta) donna della sua vita, l’educazione scolastica, quella politica, la vecchiaia. Tutto scandito da bisogni corporali primari e non, come l’assunzione della dose di droga giornaliera (che si sostituisce ai pranzi, acquistandone tutto il carattere di “raggruppatore” sociale) o l’atto sessuale, breve e intenso, proprio come quello della maggior parte degli animali. A rendere palpabile ogni singola emozione (umana e della natura [altro rapporto fortissimo]) c’è la superba fotografia di Diego Romero, che a volte riesce a creare un unicum tra attore/natura/emozioni, virando la luce accecante della natura della Louisiana, in base alle sensazioni dei protagonisti. C’è tanto spazio per i sentimenti, quelli puri e semplici, perché lo schifo della società dei consumi ha invaso tutto, rendendo questi posti dimenticati da Dio delle roccaforti di speranza persa, castelli di baracche e assi di legno pronte a cadere al soffio delle nuove elezioni. Non a caso abbiamo citato il dato politico. Il documentario, di cui, oltre al regista è coautrice Denise Ping Lee, spara a zero sull’operato del presidente Obama, attraverso le parole (pesanti come macigni) dei suo protagonisti, eccezionali (non) attori presi dal vero, che potrebbero star zitti e farti esplodere il cuore di emozioni, vista la Storia che hanno scritta, dolorosa, in ogni ruga (e tatuaggio) della loro pelle. Il viaggio del novello Adamo nelle paludi della Louisiana, è il viaggio dell’uomo contemporaneo nell’abisso e, senza essere troppo semplicistici, anche Nietzsche precisava: “Se scruterai a lungo nell’abisso, anche l’abisso scruterà dentro di te”. È quello che accade al protagonista: forse un film documentario non ne avrebbe avuto uno, ma molteplici, ed è proprio quello che il regista riesce a fare, ramificando, rizomando, con estrema lucidità, perfetti ritratti che ruotano, come cadaveri ambulanti, alle spalle del protagonista; come se, piazzandosi dietro le spalle di questo piccolo minimondo, il regista riuscisse a narrare, proprio come recita l’evocativo sottotitolo, “l’altro lato” (The Other Side), l’altra faccia dell’America, che sarà anche povera, o piena di difetti (anche se il concetto di difetto è sempre soggettivo), ma dimostra che non si arrende e tiene “sulle proprie spalle” parte del paese più potente del mondo (si pensi al discorso dell’anziano al ragazzo, sorta di “passaggio delle consegne” darwiniano). La seconda parte, più breve e forse più terrorizzante, è ambientata nel mondo dei reduci, che sognano una nuova rivoluzione, accecati dal diritto di difendere, “ad ogni costo” la propria famiglia. E tra una sorta di mini episodio di Jersey Shore e festini al limite delle orge, va avanti una sorta di teatrino del maschilismo estremo. Il collegamento è evidente: per arrivare a questo (l’idea di rivoluzione) si passa per l’evoluzione. Fatta di camera a mano, ansimante, martellante. Distrutta e distruttiva, come il relitto dell’auto incendiata che chiude questa eccezionale pellicola.
Un vero peccato la povera distribuzione di questa bellissima pellicola e che merita di essere recuperata appena possibile. Se ne avete il coraggio.