Potrebbe comunicare con gli affiliati ancora in libertà e controllare dal carcere gli affari della cosca. Per questo Ferdinando Cesarano, storico fondatore della cosca di Ponte Persica, deve restare al carcere duro. Nonostante siano passati circa 19 anni. Nonostante dietro le sbarre si sia laureato in Giurisprudenza. Nonostante che la difesa non abbia dubbi sul fatto che si tratta di un detenuto modello. Nonostante abbia 74 anni. Tutto questo non basta a far uscire il boss dal 41 bis. Almeno è questo il parere, tradotto in decisione giuridica, assunto dalla Corte di Cassazione.

I giudici della Suprema Corte, infatti, hanno respinto il ricorso presentato dalla difesa del boss. Per le toghe, se Cesarano lasciasse il regime restrittivo al quale è sottoposto sarebbe in grado di riprendere in mano le redini del clan. Insomma, si tratterebbe di un soggetto ancora pericoloso e il fatto che da anni si sia allontanato da Castellammare di Stabia avrebbe poca importanza e nulla toglierebbe – sempre a parere dei giudici della Cassazione – alla sua potenziale pericolosità. Anche perché allo stato non è ancora chiaro chi abbia effettivamente la guida di una cosca che, seppure duramente colpita con numerosi arresti che hanno riguardato capi e gregari, appare ancora attiva. Il “core business” degli affari rimangono essenzialmente le estorsioni e la gestione degli appalti non solo a Castellammare e nell’area stabiese, ma anche a Pompei e Scafati, in provincia di Salerno, senza disdegnare di coltivare interessi in comuni minori. Ma è nella periferia Nord di Castellammare che la cosca ha il suo insediamento più forte. Un’area “di competenza” maturata all’indomani dell’accordo con il clan D’Alessandro, raggiunto al termine di una faida sanguinosa, combattuta a suon di piombo e morti. Fino alla stipula della pace tra la cosca di Michele D’Alessandro e quella di Cesarano che hanno deciso di dividersi la città. Gli stessi investigatori stanno cercando di capire chi sia ora al vertice del clan di Ponte Persica.