A leggerle con un troppo facile senno di poi, le parole che Alessandra Matteuzzi ha verbalizzato il 29 luglio in una caserma dei carabinieri di Bologna appaiono come una tragica premonizione. La donna parlava dei litigi avuti a inizio giugno con il compagno Giovanni Padovani e diceva che, da allora, «tutte le volte in cui ho accondisceso alle sue richieste è stato per paura di scatenare la sua rabbia». La rabbia del 27enne è esplosa contro di lei la sera del 23 agosto, quando l’ha attesa sotto casa in via dell’Arcoveggio e l’ha uccisa a martellate, percuotendola anche con una panchina. Ora il calciatore dilettante è in carcere, per omicidio aggravato dallo stalking, lo stesso reato per cui la 56enne lo aveva denunciato.
Persecuzione che non era mai sfociata in violenza, ma che era fatta, secondo i racconti della vittima, di controlli continui sui social e di apparizioni improvvise nei luoghi che lei frequentava.
Cosa chiedeva
Padovani chiedeva ad Alessandra, in certi periodi, un video ogni dieci minuti per sapere dove si trovava e che persone incontrava. Non solo: la vittima aveva scoperto, a febbraio, che le password dei suoi profili erano tutte cambiate. «Ho potuto constatare – raccontava in denuncia – che erano state modificate sia le email che le password abbinate ai miei profili, sostituite con indirizzi di posta elettronica e password riconducibili a Padovani». Inoltre «ho rilevato anche che il mio profilo Whatsapp era collegato a un servizio che consente di visualizzare da un altro dispositivo tutti i messaggi da me inviati. Ne ho quindi dedotto che che nei giorni in cui era stato da me ospitato era riuscito a reperire tutte le mie email e le mie password che avevo memorizzato nel telefono».
Bastava poco per fare arrabbiare il 27enne: «Anche una semplice foto da me postata sui social e che inquadrava le mie scarpe appoggiate sul cruscotto dell’auto al rientro da una trasferta di lavoro era stata motivo di una sua scenata», si legge nella denuncia.