Andrea Betti ci descrive il suo progetto letterario ed editoriale. Un viaggio nella scoperta del suo mondo. Una breve visita è un romanzo piacevole e pieno di contaminazioni.
Andrea nella tua biografia ci racconti che il secolo acidificato è il XXI, cosa rappresenta per te sia dal punto di vista personale che professionale?
“La definizione “acidificato” si riferisce al processo di acidificazione degli oceani, che avrà conseguenze disastrose da qui a pochi decenni: non ti fornisco la data precisa perché l’anno che ho ipotizzato, basandomi sugli attuali studi di climatologia, coincide con l’anno della comparsa dei Cilestrini (le misteriose entità “aliene” che nel romanzo si palesano al Polo Sud per il loro weekend da turisti distratti, indifferenti alla civiltà umana).
Lascio al lettore il piacere – o il fastidio – di dedurlo. Sicuramente chi informato circa le
tematiche dell’antropocene e del climate change saprà individuarlo con facilità. Ma, come noti giustamente, “acidificato” ha anche un altro significato, più personale, certo. Sono un vecchio “psiconauta” e la mia prima uscita editoriale è stata un saggio per il libro “La Scommessa Psichedelica” – edito da Quodlibet, a cura di Federico di Vita.
In questo libro, insieme ad altri autori, divulgatori, scrittori, politici, scienziati indaghiamo il
fenomeno del cosiddetto Rinascimento Psichedelico, ovvero il recente sdoganamento delle
sostanze psichedeliche dai fuorvianti retaggi oscurantisti che ancora adesso le equiparano alle droghe pesanti, con le quali non hanno nulla a che vedere sia come farmacodinamica, sia perché a differenza di queste, non sviluppano dipendenza nell’assuntore.
Perciò “acidificazione”, com’è nello spirito di “Una breva visita”, è contemporaneamente, scenario distopico (la devastazione degli oceani) che scenario utopico: speranza riposta nelle implicazioni positive che un uso sia creativo, che terapeutico produrrebbe sulla società e le sue dinamiche.
Si vedano a tal proposito gli esperimenti intrapresi da Robin Carhart-Harris all’Imperial College di Londra per la cura di forme depressive gravi. Personalmente mi riconosco in entrambe le tensioni, in bilico fra l’angoscia per lo status quo e la lotta per un cambio di paradigma nell’umanità favorito dalle sostanze sacre”.
Noto che anche lì una certa contaminazione di elementi che poi ritroviamo nel tuo romanzo, gli stessi si ripercuotono anche nei tuoi gesti quotidiani?
“Conduco una vita piuttosto tranquilla, ma la mia mente di tarantolato ha sempre funzionato per associazioni d’idee vertiginose. La contaminazione è una strategia di sopravvivenza che sarà necessario apprendere e riconfigurare già da subito. Non parlo di “contaminazione” come corruzione, ma di quella capacità degli esseri viventi di costruire partnership con altre forme di vita (penso ai licheni così come li descrive Sheldrake, o ai piccioni della Haraway)”.
Una breve visita è un romanzo fantascientifico, in esso si reitera il concetto di Eliopausa e di Fessura, cosa sono realmente? Come potresti sintetizzarli?
“L’Eliopausa è un concetto scientifico che non ho inventato. Così si definisce il confine del sistema solare, dove è situata la Nube di Oort. Il luogo (esistente) dove nascono le comete le quali, come ipotizzato, potrebbero essere le portatrici di vita – o almeno così sulla Terra.
Si veda, per maggior approfondimenti, il progetto ORIGINS (Elucidating the origins of Solar
System(s): anatomy of primitive meteorites), studio che ha rinvenuto nuovi tipi di grani cometari e micro meteoriti ad alto tenore di materiale carbonaceo, in Antartide nel maggio 2010, nella base italo-francese Concordia.
La Fessura nella Nube di Oort è invece un’invenzione letteraria. Ho immaginato, come gli antichi, un universo concluso in una volta. Il guscio dell’“uovo cosmico” nel quale va ad aprirsi una crepa misteriosa, che potrebbe essere anche uno spiraglio su altre dimensioni e forse il luogo da cui vengono emanati i Cilestrini”.
Si parla di Panacedia, un’epidemia che ricoprirà il mondo di depressione, in tal caso hai tratto ispirazione dalla pandemia che ci lasciamo alle spalle?
“Come tutti noi, ho subito lo shock pandemico del Covid-19, la paura, le restrizioni alla libertà; secondo me in qualsiasi produzione culturale di questi ultimi anni se ne può ravvisare traccia. Anche in quei testi che non hanno voluto espressamente “monetizzarla” come nella congerie di istant book usciti a cavallo e poco dopo la Pandemia.
Chi aveva letto “Spillover” di David Quammen (pubblicato nel 2012!), aveva ben chiaro a cosa stavamo andando incontro. Purtroppo non si tratta di fantascienza, ma di scienza, come recitava un vecchio claim pubblicitario; gli scenari delineati da virologi, climatologi e altri studiosi, non sono ipotetico-fantastici, ma realtà che abbiamo già cominciato ad affrontare senza un reale cambio di atteggiamento, continuando a mettere la testa sotto la sabbia.
In ambito letterario ho notato che il trauma globale della pandemia, risuona anche in opere più tradizionali (thriller, gialli, narrativa di intrattenimento), nonostante non si sia ancora pervenuti al cambio di paradigma auspicato da Matteo Meschiari: per quanto il progetto di scrittura collettiva “Tina. Storie della Grande Estinzione” edito da Aguaplano, e curato da Meschiari-Vena, al quale ho partecipato, sia un passo importante in quella direzione”.
In molti dei capitoli trattati all’interno del tuo testo, sono presenti diversi riferimenti storici, ma anche diverse città, quale è il luogo che più è rimasto stampato nel cuore del protagonista del racconto?
“Difficile parlare di un unico protagonista in una narrazione polifonica: i protagonisti sono molti; sono personaggi immaginari ispirati a persone che ho realmente conosciuto, perché “Una breve visita” è alla fine un memoir fantascientifico. C’è un forte elemento autobiografico a far da legante alla frammentarietà del romanzo.
Così le città: a eccezione di quelle vere (Firenze, Amburgo, Manhattan seppur deformate dal filtro dell’immaginazione e dei ricordi che conservo di esse). La città principale dove si svolgono i fatti narrati nel libro è Hamistadt, città immaginaria. Una sorta Vienna-Venezia Napoli-Istanbul, che sorge sulle rive del grande fiume Scamander (fiume e divinità fluviale della mitologia greca cui è dedicato il XXI canto dell’Iliade) crocevia fra Oriente e Occidente.
Uno snodo al cui interno ho inteso confondere alcuni scorci di città vere (oltre alle succitate) i portici di Bologna; l’omaggio a Berlino nel nome del caffè Pergamon dove Ajuricaba e Guinevere fanno amicizia; il mercato di San Lorenzo a Firenze, il lungofiume un po’ Lungarno un po’ Bund di Shangai. Ma se Hamistadt è la città della Storia con la esse maiuscola, dei grandi traffici, la culla del movimento Sva, il posto dove vivono i vari protagonisti, il luogo del cuore di molti di essi è Castillo du Ciel.
In questa località balneare, ispirata ad un luogo a me caro dove ho trascorso le vacanze estive sin dall’infanzia, si svolge tutta la sottotrama esoterica di “Una breve visita”. È il luogo della spiaggiata fra ragazzi che si trasforma in seduta spiritica; è la città del cuore di Guinevere e suo fratello Marcus; è la città dove avvengono i funerali del loro amico Sputter; é l’approdo del sommergibile Coriolano usato dal professor Amirani nella sua missione di salvataggio delle opere d’arte dalla furia dei Rad.
Molti protagonisti sono spettrali, o agiscono in una maniera spettrale (si pensi all’artista Eugen Urmach). Queste presenze umbratili sono nondimeno importanti quanto i personaggi che operano in primo piano.
Per aiutare – o confondere? – il lettore ho inserito all’inizio una dramatis personae dove sono elencati i personaggi principali e un prontuario alla fine, il Manuale del Kiberneta Meticoloso, nel quale sono descritti edifici e città, strutture sociali e movimenti politici e religiosi, tecnologie e strumenti, veri e immaginari che popolano il libro”.
Andrea a quale autore hai tratto spunto, prima di scrivere il tuo romanzo? O meglio hai un modello letterario su cui hai tratto ispirazione durante la stesura del tuo libro?
Direi che Ernest Cline è stato il modello (Player One); la sua narrazione costruita su omaggi e citazioni alla cultura pop anni Ottanta, è stata esemplare. Infatti “Una breve visita” è letteralmente farcito di citazioni a film e libri o autori che ho amato. Alcune in maniera palese, altre nascoste che al solito il lettore avrà il piacere (o il fastidio) di rintracciare. Omaggi talvolta subliminali, altre volte sfacciati, a Philip Larkin, a Ridley Scott, a Pasolini.
Chiaramente questi sono easter eggs come si dice in gergo, piccole sorprese o piccole trappole, il cui scopo è divertire, dare spunti, senza influire sulla lettura complessiva del romanzo, che nonostante la frammentarietà ha un tema, la sua trama principale, il suo svolgimento ed epilogo.
Devo ringraziare per questo il mio editor Alfredo Zucchi che con grande sensibilità mi ha aiutato a far emergere la mia versione di un first contact con altro dall’umano, in questa forma desueta, sulla scorta del realismo fantastico sudamericano che entrambi amiamo molto. La lettura di Laiseca, Lamborghini, Arlt, Sabato ha fornito le giuste armoniche, le coordinate stilistiche e lessicali più consone.
E se i sudamericani mi hanno permesso di mettere a fuoco il delirio e renderlo lucido, devo alla lettura di Manganelli le parti più ironiche che stemperano il clima altrimenti apocalittico di un romanzo del genere e l’affettazione di un’epica contemporanea che solo pochissimi oggi riescono a maneggiare (penso a Jeff VanderMeer e al suo “Dead Astronauts”). I dialoghi dei galleristi, o certe fluttuazioni forbite ma punk del diario di Amirani sono debitori dell’irriverenza manganelliana.
Con Alfredo abbiamo lavorato su una scrittura densa, ambiziosa, portata al limite, ma che non poteva essere altrimenti, tali e tante erano le letture che mi ossessionavano. Cercare la propria voce è soprattutto riconoscere in essa gli echi di altre che ci abitano. Seguendo il flebile fiato che di tanto in tanto ci sussurra una storia all’orecchio, attraverso un sogno o durante una passeggiata.
Colgo l’occasione di questa intervista per ringraziare te, Rossella, tutto il team del Pompei Lab e il mio amico fraterno Rocco Traisci per la loro ospitalità; ringrazio i Wojtekiani: Ciro Marino, Lucio Leone, Alfredo Zucchi, Alessia Cuofano, Antonio “Bobo” Corduas, (autore della copertina) e tutti gli altri, per aver investito in questo progetto. Il libro nella sua forma editoriale è opera collettiva, concorso di sensibilità.
Wojtek, libreria e casa editrice di Pomigliano d’Arco è un’eccellenza campana che guarda al
mondo, attenta ai nuovi linguaggi. Essere parte del suo novero, è per me profondamente
lusinghiero. Un incontro reso possibile dal formidabile lavoro della mia agente Sylvie Contoz. L’esordio credo, è soprattutto questo: dire grazie a chi ti ha scovato e messo in pista.
Si ringrazia Andrea Betti per averci concesso questa intervista.