«A quanti hanno violentato la processione di Livardi, pretendendo l’omaggio della statua, e quindi della Chiesa, dico: se desiderate l’amore chiedete perdono per la vostra arroganza, solo così quello sguardo si rivelerà quale amore gratuito che non vi chiama al comando della comunità cui appartenete ma al suo servizio, in umiltà». Parole dure quelle dell’allora
arcivescovo di Nola, monsignor Beniamino Depalma. Di fronte alla sfrontatezza e all’arroganza del clan, la Chiesa diede un segnale forte. I portantini della statua della Madonna del Rosario fecero quel gesto di riverenza «senza preavvisare il parroco e senza
alcuna necessità di ordine culturale».

Depalma non condivise minimamente il gesto di fermare il corteo, girare la statua verso il vicolo dove sorge l’abitazione della famiglia camorrista dei Sangermano e fare
un “inchino” in omaggio al boss. Non c’era un barlume di cristianità, di fede. Scrive allora a don Fernando Russo, il sacerdote che svestì la stola e andò via. Lo seguì il maresciallo dei
carabinieri che era nel corteo. «Nello scrivere a te, caro Fernando, e alla comunità di Livardi, oltraggiata in un momento di festa, e nel confermarti la mia paterna ed episcopale vicinanza, ribadisco il mio sostegno e la mia preghiera per i parroci della diocesi che
quotidianamente si trovano a fronteggiare l’arroganza di quanti, ritenendosi depositari anche della fede credono di poter disporre di essa e della Chiesa per soddisfare un
desiderio di affermazione personale al quale tutto va subordinato, anche Dio». Era il 10 giugno 2016. La stessa domenica a Corleone un altro “inchino” deferente omaggiava un altro boss.