Un premio e una concessione di qua e una piccola stretta di là. Il pacchetto pensioni varato dal governo Meloni con la manovra è molto articolato e, come un esperto equilibrista, si muove su un filo sospeso tra due esigenze contrapposte: le promesse della campagna elettorale e i conti pubblici da tenere in ordine. E così, pur se non rivoluzionarie e in alcuni casi temporanee, sono molte le novità introdotte.
SOGLIA MASSIMA
A cominciare dalla ormai famosa Quota 103 che permetterà nel 2023 di andare in pensione chi ha compiuto 62 anni di età e ha 41 anni di contributi, ma con un ulteriore paletto annunciato dal presidente Meloni in conferenza stampa: fino al raggiungimento dell’età per la pensione di vecchiaia (67 anni) l’importo della pensione mensile non potrà superare cinque volte l’assegno minimo. Ovvero tremila euro se, come previsto proprio nella manovra, l’asticella della pensione minima è alzata delle attuale 524,38 euro a 600 euro (le tabelle sono ancora in lavorazione). Una volta compiuti 67 anni chi per effetto di questo tetto avrà un taglio della pensione, ritornerà a percepire l’assegno “pieno”.
Insomma, è aperta come promesso una via di uscita rispetto alle regole più stringenti della legge Fornero in attesa di una riforma strutturale del sistema previdenziale, ma in extremis è inserita anche una penalizzazione temporanea. Dovrebbero essere confermate (il testo definitivo della norma ieri sera era ancora all’esame degli uffici legislativi) le finestre mobili di tre mesi per i lavoratori privati e sei mesi per i pubblici (che diventano sette mesi per i pubblici che raggiungono i requisiti a fine dicembre 2022). In pratica quindi con requisiti raggiunti nel 2022 si esce dal lavoro ad aprile se privati e da agosto se pubblici.
Per la misura sono state stanziati 700 milioni ed il governo prevede che potrà essere sfruttata da una platea totale di circa 47mila persone nate tra il 1960 e il 1961. Ma è probabile che “il tetto” possa avere un effetto dissuasivo su una parte della platea, così come l’eventuale aggiunta del divieto di cumulo con il lavoro.
IL PREMIO
Altra novità riguarda chi invece, pur avendo raggiunto i requisiti per andare in pensione, decide di continuare a lavorare: in questo caso scatta un premio, ovvero una decontribuzione di circa il 10%, sconto tutto a favore dei lavoratori che sarà versato in busta paga. È la rivisitazione del cosiddetto bonus Maroni attivo dal 2004 al 2007 e che “convinse” quasi centomila persone a ritardare il momento del pensionamento (85% uomini, 15% donne). La norma Maroni (l’esponente leghista morto proprio ieri, all’epoca ministro del Lavoro) prevedeva però un premio decisamente più alto, ovvero la piena decontribuzione peraltro esente da Irpef, cosa che portò buste paga più alte anche del 45% (33% di contributi più lo sconto Irpef). Pur in versione ridotta, il bonus Maroni resta un incentivo per chi posticipa il pensionamento.