A ormai 20 anni dalla morte di Massimo Troisi, noi celebriamo il giorno della sua nascita. Perché Massimo non è uno che puoi ricordare con la sua morte, ma è uno per il quale bisogna raccontare la sua eterna genialità umana. Figlio di un macchinista ferroviario e di una casalinga, l’aver vissuto in una casa popolata da altre 16 persone, lo formò ad uno spiccato senso del gruppo e della collettività, e come lui stesso diceva con una battuta, «quando ci sono meno di 15 persone mi colgono violenti attacchi di solitudine». Trasferire il teatro della sua vita privata in palcoscenico è quello che fece già da giovane nella parrocchia della Chiesa di Sant’Anna insieme all’amico d’infanzia Lello Arena.
Massimo era figlio del Vesuvio e ne era orgoglioso. Lo urlava al mondo, non cercava di nascondere la sua anima partenopea come vilmente fanno molti suoi colleghi, anzi la mostrava nella sua ineguagliabile naturalezza. “Penso in napoletano, sogno in napoletano…” per cui sfrontatamente chiedeva agli interlocutori “avita capì ‘o nnapulitan!”. Ma il suo era un napoletano che rompeva con la tradizione: anche se colorito e caratteristico per i toni, i modi di dire, la spiccata personalità, aveva un inconfondibile tremolio della voce, mai eccessivo nel volume, ma articolato attraverso mezzi toni che attenuavano la naturale estroversione propria del dialetto. Massimo usava un tipo di recitazione molto spontanea, presa dall’uomo qualunque, la cui umiltà e semplicità ne portava a confondere spesso l’uomo Troisi con l’attore. «Io faccio film intelligenti? Non lo so – diceva – faccio film che mi piacciono, ne farei uno ogni sei mesi, sempre con il piacere di girare e recitare. E invece non si può. Mi propongo sempre di fuggire dai luoghi comuni, dalle cose che potrebbe dire chiunque». E invece Massimo era molto intelligente e mai banale, sul lavoro, nella vita, in amore.
La Smorfia fu un capolavoro comico, ironico e sarcastico nei confronti delle tradizioni napoletane, dei luoghi comuni, del lavoro, della religione. La Smorfia gli aprì le porte del grande pubblico, che lo consacrò già con il suo primo film “Ricomincio da tre” del quale fu attore e regista. Seguirono, dall’81 al ’94: “Morto Troisi, viva Troisi!” (anche regista), “No grazie, il caffè mi rende nervoso”, “Scusate il ritardo” (anche regista), “FF.SS. – Cioè: …che mi hai portato a fare sopra a Posillipo se non mi vuoi più bene?”, “Non ci resta che piangere” (anche regista), “Hotel Colonial”, “Le vie del Signore sono finite” (anche regista), “Splendor”, “Che ora è?”, “Il viaggio di Capitan Fracassa”, “Pensavo fosse amore… invece era un calesse” (anche regista), e il capolavoro di Michael Radford “Il postino”. Eccezion fatta per quest’ultimo, probabilmente, Massimo il meglio l’ha espresso nelle opere delle quali era anche regista e sceneggiatore proprio perché in esse veniva fuori tutta la fusione tra ironia e malinconia, tra pragmatismo e indecisioni, tra l’“essere” e il “dover essere”. «È meglio un giorno da leone o cento da pecora? Facciamo cinquanta da orsacchiotto e non ne parliamo più», sentenziava il suo Vincenzo in Scusate il Ritardo. Anche in amore cercava di fuggire dai luoghi comuni e dalla routine: «Io non è che sia contrario al matrimonio, però mi pare che un uomo e una donna siano le persone meno adatte a sposarsi», diceva con chissà quanta serietà. Aveva un estremo rispetto per la figura femminile, un amore che spesso si trasformava in reverenza e timore perché le donne dei suoi film sono vincenti, sicure, dominanti. Sempre pronto a lanciare messaggi attraverso quello che scriveva e diceva, perché lui era venuto dal basso, conosceva bene la vita di chi soffre per sbarcare il lunario, e, riconoscendo di essere un fortunato, cercava di mettere anche le sue parole al servizio degli altri. «Paura nel mio lavoro? questo è un lavoro privilegiato, ave’ paura me pare ‘nu poco troppo… Se al limite un film va male puoi rimane’ amareggiato, ma la paura no, ‘a paura è quando ci stanno sessanta licenziamenti in fabbrica».
Se ne possono riportare chissà quante per ricordare che Massimo Troisi, è sempre presente. Ci divertiamo per questo a chiudere con una battuta, frutto del convinto amore per le sue origini, che dopo ventiquattro anni le cronache politiche e giudiziarie hanno reso quanto mai attuale «Bossi è in disgrazia, quasi espulso dal partito, hanno trovato un 45 giri di Peppino di Capri a casa sua. Me l’ha detto un infiltrato calabrese nella lega lombarda che sembra un milanese. È stato sbugiardato anche dalla moglie».
Poliedrico, poetico, geniale, umano, pedagogico, eterno, fatto di una pasta unica: Massimo Troisi è Made in Vesuvio.